Dopo le rivelazioni di Edward Snowden sul sistema di sorveglianza globale, il tema ha perso rilevanza nel dibattito pubblico. Eppure, l’architettura di tale sistema non ha fatto da allora che crescere costantemente. Abbiamo ormai interiorizzato l’essere registrati e tracciati, perché la struttura digitale di potere in cui opera la sorveglianza è diventata indispensabile alla nostra sopravvivenza sociale.
Vivere “off the grid” (fuori dal sistema) non è un’opzione percorribile, se non al prezzo dell’isolamento o dell’esclusione. In questo senso, la nostra società sembra aver raggiunto uno stato di indifferenza verso la sorveglianza. Ma si tratta di un’indifferenza fittizia. Anche in questo contesto, si percepisce una ribellione silenziosa che cresce sotto la superficie: timer autodistruttivi nelle chat e profili anonimi sono sempre più diffusi. “Date a un uomo una maschera, e vi dirà la verità”, scrisse una volta Oscar Wilde.
Questa affermazione è particolarmente rilevante per l’industria della salute mentale in modi che non sono immediatamente evidenti, e che possono persino sembrare contraddittori per i pazienti. Sebbene l’industria si presenti come una panacea che ci offre conforto e cura, può produrre l’effetto opposto. Può essere usata come arma contro chi dissente dall'ortodossia dominante. Vengono conservati dei documenti, e un giudice può obbligare psicologi e psichiatri a violare la riservatezza per segnalare una determinata condizione che possa aiutare a risolvere un caso. I terapeuti tengono registri non solo per se stessi, ma perché legalmente obbligati a farlo, pur dichiarando ai loro pazienti di avere un dovere etico di proteggere la privacy dei clienti. Se ciò fosse vero, ci si dovrebbe chiedere perché la legge li costringa a conservare tali informazioni fin dall’inizio. Perché non è una scelta lasciata alla discrezione del terapeuta? La riposta a questa domanda spesso si concentra sul bisogno di sicurezza, ma la sicurezza viene spesso giustificata come mezzo di controllo.
Questo sistema non è stato creato senza preavviso. Filosofi come Michel Foucault avevano teorizzato i pericoli della “biopolitica”, creando istituzioni del benessere dove le nostre vite vengono ottimizzate e gli standard comportamentali sanificati dall’opinione di esperti. Egli scriveva:
Il manicomio riduce tutte le manifestazioni della follia a sintomi. Tutto diventa un segno da leggere per lo psichiatra, che impone dall’esterno un significato alle parole e ai comportamenti del folle.
Foucault continua a discutere degli effetti sul paziente:
Confinato su una nave senza via di fuga, il folle viene consegnato al fiume dai mille bracci, al mare dalle mille strade, a quella grande incertezza esterna a tutto. È prigioniero nel mezzo di ciò che è il più libero, il più aperto dei percorsi: legato saldamente al crocevia infinito. È il Passeggero per eccellenza: ovvero, il prigioniero del passaggio. E la terra a cui arriverà è sconosciuta, così come lo è quella da cui proviene. La sua verità e la sua patria sono solo in quell’inutile distesa tra due terre che non gli appartengono.
La nave, simbolo di libertà, diventa in questo modo una prigione. Si è confinati a uno spazio mobile ma senza meta, costretti da una decisione ma senza capacità di agire. Una volta saliti, non si può più scendere, e in questo modo la madre patria ci diventa estranea, perché una volta identificati come pazienti veniamo separati dalla normalità.
Per definizione, la deviazione dal sistema implica una disobbedienza che richiede sottomissione, in maniera “soft” o anche in modalità più dure. L’idea stessa di diagnosi e criteri di salute mentale presuppone un modello di benessere perfetto o quantomeno raccomandabile definito dai novelli detentori del potere, che divulgano tali informazioni al pubblico, e che il pubblico finisce per accettare come verità. Queste teorie penetrano le strutture giuridiche, culturali e sociali, e danno forma a modalità di comportamento prestabilite.
Affermare di avere bisogno di aiuto è oggi romanticizzato come un atto di coraggio, un gesto eroico. E ci si dovrebbe chiedere se questo abbia una ragione. Certo, tutti abbiamo bisogno di aiuto, in momenti diversi della nostra vita, e in forme differenti, da parte di persone care o meno. Ma nel contesto dell’industria della salute mentale, ciò implica che qualcun altro acquisisce voce in capitolo sulla tua vita e che quelle informazioni, un giorno, potrebbero essere usate o esaminate da terzi.
Laddove un tempo ci si confrontava prima di tutto con amici, familiari o figure spirituali, oggi esiste un percorso istituzionalizzato verso la “guarigione”. Negli Stati Uniti gli spot pubblicitari sui farmaci da prescrizione e le storie di successo terapeutico proliferano ovunque. Gli individui possono essere forzati a farsi ricoverare involontariamente se le circostanze lo necessitano. Due pressioni si fondono: da un lato l’invito a scrutarsi continuamente o di essere forzati a farlo contro volontà, dall’altro il ricorso esclusivo agli esperti come portatori di verità scientifica. Il risultato è un’industria potente, che è sempre meno possibile mettere in discussione.
Un tempo, le strutture religiose offrivano uno spazio per la confessione e il confronto sui propri peccati e le proprie esperienze. I sacerdoti spesso non sapevano chi avrebbero trovato nel confessionale: una parete forata separava l’uno dall’altro, a garanzia dell’anonimato. Il tipo di aiuto offerto oggi dall’industria della salute mentale non è più consacrato dalla riservatezza, né dall’idea che ognuno di noi sia un’anima autonoma, indipendentemente dalla propria identità.
Si tratta invece di un aiuto “professionalizzato”, in cui una figura medica, in una posizione di autorità, ha il potere di “patologizzare” l’identità del paziente, operando all’interno di un’infrastruttura di sorveglianza che può anche renderti perseguibile.
Consideriamo infatti ora le implicazioni legali, ambito in cui la salute mentale è diventata un fattore cruciale nella determinazione dei processi. In presenza di un procedimento giudiziario, il valore dei test psicodiagnostici risulta quantomeno dubbio, se non apertamente manipolatorio. Il concetto stesso di diagnosi psichiatrica non è affidabile per diverse ragioni. Lo si è visto chiaramente nel processo tra Amber Heard e Johnny Depp, dove il pubblico è rimasto colpito dalla capacità di un terapeuta, assunto dalla difesa di Depp, di demolire la credibilità della Heard. Allo stesso modo, un terapeuta scelto dalla Heard ha tentato di screditare le affermazioni dell’attore. Amber soffriva di disturbo post-traumatico da stress o di disturbo Borderline di personalità? La risposta la rendeva attendibile oppure non attendibile, e dipendeva da quale ruolo stava ricoprendo: imputata o parte lesa.
Ciò che è emerso con più evidenza in quel processo è che la credibilità dei due non è stata giudicata in base alle prove, ma in base a chi appariva “più sano”. Una donna traumatizzata o affetta da disturbo di personalità, contro un uomo dipendente da droghe e alcol. La battaglia non è stata giocata sul piano della dimostrazione, ma su quello della credibilità. La categorizzazione della salute mentale di ciascuno è diventata un’arma al servizio della vendetta.
I problemi che emergono dall’intersezione tra salute mentale e legge non derivano da test mal applicati o da risultati male interpretati. Il problema sta nel sistema stesso, che è viziato alla radice. Nel suo nucleo, esso crea un ambiente sterilizzato, fondato sul controllo del comportamento, dove si è tenuti a seguire specifici modelli di benessere predefiniti, come se esistesse un ideale di “salute mentale perfetta”. La mancata adesione a tali schemi, e la classificazione della non-conformità all’interno di una delle sempre più numerose “condizioni” psicologiche, fornisce una base legale per prendere decisioni sfavorevoli nei confronti dei non conformisti. Costoro vengono ritenuti privi di capacità, incapaci di scegliere ciò che è meglio per loro stessi, fino a subire una perdita di credibilità. Le loro convinzioni diventano accettabili solo se passano attraverso lo sguardo medico.
In questo contesto, è facile dimenticare che il nostro stato mentale non è una prova della nostra affidabilità. Una persona che cerca supporto psicologico e viene considerata affetta da una malattia mentale può essere più sincera di un’altra ritenuta “sana” solo perché non ha mai chiesto aiuto.
Si prenda, ad esempio, una persona affetta da psicopatia non diagnosticata. Non essendo interessata a ricevere cure, sfugge alla vigilanza che il sistema comporta. Quella persona potrebbe apparire come un membro funzionale e affidabile della società. Nonostante una tendenza alla manipolazione e all’assenza di empatia, può risultare più credibile di una persona coscienziosa che ha avuto il coraggio di chiedere aiuto. In questo senso, lo psicopatico non è semplicemente un’anomalia che sfugge al sistema della salute mentale: ne sfrutta fino in fondo la logica autodistruttiva. Anche chi presenta tratti narcisistici spesso manca della consapevolezza necessaria per riconoscere i propri comportamenti. E se si rivolge a un terapeuta, la comprensione della sua condizione da parte dello specialista rischia di essere unilaterale, se non errata. Presentare le pratiche di salute mentale come puramente scientifiche possa scoraggiare l’esame critico e creare un falso senso di oggettività.
Con il declino delle strutture religiose, il sostegno psicologico diventa problematico, poiché non è né realmente riservato né pienamente affidabile sotto il profilo del giudizio scientifico. In questo contesto, la fragilità può diventare uno strumento di controllo anziché di supporto. Invece di creare un ambiente di fiducia e cura, come un tempo facevano le strutture religiose, l’industria della salute mentale può generare un clima di paura e controllo, dove il profitto è l’obiettivo finale, e dove individui consapevoli di sé, e spesso innocenti, non diventano solo danni collaterali, ma il bersaglio. Un utile promemoria è mantenere la consapevolezza che ammettere delle falle in questo sistema può comportare il rischio di responsabilità in contesti ad alta posta in gioco.
I criteri diagnostici in ambito psicologico sono in continua evoluzione, e c’è chi sostiene che, prima o poi, la maggior parte della popolazione finirà per essere classificata come “disturbata”. La difficoltà umana viene patologizzata, incasellata in una definizione che lascia un marchio, invece di rappresentare qualcosa da superare. L’idea di poter diventare una versione diversa di sé stessi si fa sfuggente: se sei ritenuto “malato”, ora puoi continuare ad esserlo. Supponiamo che possano “curarti”, il sistema rimarrà comunque sorvegliato nel caso tu devii di nuovo dalla norma, e la loro versione di cura è certamente una che non corrisponde alle tendenze della società: i trattamenti per la salute mentale sono in aumento, ma lo sono anche le persone che continuano ad avere bisogno di aiuto. Questo suggerisce un fallimento del sistema.
Anche se esistono leggi a tutela della riservatezza, ciò che conta davvero è il potere della parola dello specialista. Essa può essere usata per far rientrare un’esperienza nei criteri diagnostici, e quell’etichetta può acquisire valore legale, se necessario. Questo è sufficiente a far esitare qualcuno nel sentirsi libero di esprimersi pienamente e di ottenere l’aiuto di cui ha veramente bisogno.
A volte, infatti, le persone hanno bisogno di qualcosa che va oltre la famiglia e gli affetti: sentono il bisogno di confessare i propri pensieri a un estraneo, anche quando questi non sono considerati ammissibili secondo le definizioni contemporanee di sanità mentale. Desiderano che qualcuno li ascolti senza il timore di essere giudicati. Non è necessariamente perché abbiano qualcosa da nascondere, ma perché l’anonimato, grazie alla certezza che non ci sarà alcuna registrazione o diagnosi, permette loro di sentirsi liberi dal controllo, invece che alienati dalla propria identità e dalla società in cui vivono.
Non sorprende, forse, che i guaritori spirituali stiano conoscendo una crescente diffusione in Occidente. Questa tendenza non si deve soltanto al fatto che essi offrano un sistema di trascendenza che l’industria moderna della salute non è in grado di fornire, ma anche al fatto che siano immuni dalla struttura legale di sorveglianza che circonda tale industria. Le persone si sentono protette da una forma di spiritualità che nasce dall’essere liberi dalle istituzioni “temporali” di controllo.
Non sarà attraverso la creazione di nuovi sistemi di sorveglianza, fondati su una concezione di benessere che può essere usata come arma mirata, che le persone potranno essere aiutate a superare le proprie difficoltà. Ciò che desiderano, profondamente, è la libertà. Per averla ciò di cui hanno bisogno è la riservatezza.
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