Cosa c’è che non va in te?
Joe Goldberg, stalker, assassino e protagonista della serie You su Netflix, se lo domanda. E lo chiede anche a tutto il genere femminile. Dopo cinque anni trascorsi tra amori e omicidi, Joe si ritrova sdraiato nella sua cella a leggere le lettere di donne adoranti che continuano ad amarlo, nonostante le condanne di omicidio. O forse, proprio per quelle.
Dovremmo quindi in effetti chiederci: cosa c’è che non va in noi donne? Joe, un bibliotecario di New York, trova in ogni stagione una nuova donna da adorare, una novella Beatrice dantesca da rincorrere. Una donna che però, nella maggior parte dei casi, finisce uccisa da lui. Joe è il prototipo dell’amante tossico: controllante, manipolativo e, infine, serial killer. Eppure, nonostante il suo passato, Joe è stato amato, idealizzato e romanticizzato da milioni di spettatrici. Un post di The Single’s Woman provocava così: “Uccide la gente e riesce comunque a rispondere ai messaggi.” La stessa pagina chiedeva alle lettrici: “Alzate la mano se volete un amore come quello di Joe Goldberg.” Quasi cinquemila donne risposero “sì”. Nel suo primo mese, You raggiunse 40 milioni di spettatori, e fu rinnovato per altre quattro stagioni. La serie fu però accompagnata da polemiche, proprio per la romanticizzazione del suo protagonista omicida. Joe era troppo amabile per essere cattivo; troppo principesco per essere crudele. Perfino l’attore che lo interpreta, Penn Badgley, si è detto a disagio per la popolarità che circondava il suo personaggio.
Dunque, cosa hanno amato le donne di Joe? La serie si muove sulla soglia di un paradosso. L’amore che Joe prova per le sue amate: Beck, Love, Marianne, Kate e infine Bronte, è tossico. È un amore che controlla, sorveglia e uccide chiunque rappresenti una minaccia per l’oggetto del suo desiderio, che lui percepisce come proprio: dagli ex scomodi agli amici indesiderati. La facciata, per quanto affascinante, non può reggere a lungo, e le donne finiscono per scoprire chi Joe sia davvero. La maggior parte tenta di denunciarlo, e allora Joe è “costretto” a ucciderle. E nel farlo mostra ben poco rimorso: le donne che aveva idealizzato vengono immediatamente svalutate per averlo “tradito”, per non aver compreso la sua vera natura e le sue intenzioni protettive.
Joe vuole essere accettato per ciò che è, ma solo se questo gli consente di restare un “eroe”, seppur oscuro. Love, l’unica donna che è anche un’assassina e che davvero lo rispecchia, lo spaventa e lo respinge: non solo perché lo costringe a guardare le parti peggiori di sé, ma perché gli toglie il ruolo di salvatore: una moglie assassina non ha certo bisogno di essere salvata. Anche Kate, CEO miliardaria e figura dominante, lo affascina solo finché non gli nega il bisogno più profondo: quello di sentirsi utile, perfino nel suo istinto omicida. Allo stesso tempo, gli spettatori maschi sono attratti da queste donne forti: Love, personaggio borderline che oscilla tra dolcezza e follia, e Kate, CEO fredda e razionale. Qui si apre un altro desiderio maschile, paradossale: essere all’altezza di una donna capace di sfidarli.
Eppure, fino al momento in cui la vera natura di Joe viene svelata alle protagoniste quell’amore così tossico non fa male. Al contrario: fa bene. Le donne che ignorano i suoi crimini sono felici di essere salvate da Joe. Beck si sente finalmente compresa come scrittrice, Love trova la sua anima gemella assassina, Marianne raggiunge la pace dopo anni di tormenti, Kate trova rifugio dalla sua famiglia tossica, e Bronte realizza il sogno di diventare qualcuno oltre a una semplice assistente dentale. Il messaggio provocatorio di You è che ci mostra un uomo pericoloso fino al midollo, ma la cui pericolosità è costruita in modo da garantire la felicità della donna. Joe uccide, ma protegge. Controlla, ma rassicura. Porta ordine nelle vite caotiche delle donne che ama. Le “migliora”. Almeno per un po’. Ed è proprio quel “per un po’” che fa crollare il circuito: finché Joe non viene scoperto, appare come il principe perfetto. Attento, intelligente, colto, devoto, gentile, premuroso e protettivo. Fa tutto ciò che le donne desiderano in un uomo che le ama incondizionatamente.
You ci mette di fronte a un cortocircuito: mostra come comportamenti che definiamo tossici in astratto, dal controllo, alla gelosia, alla sorveglianza, all’idealizzazione, possano apparire romantici se inseriti in una narrazione ben costruita. In un’epoca in cui anche minime deviazioni dalle norme “sane” sono sufficienti a etichettare qualcuno come “problematico”, in cui gli uomini sono derisi come “zerbini” se corteggiano con troppa insistenza, You ci disarma con il potere del paradosso: ci fa empatizzare con un killer-stalker che pare agire in nome dell’amore. Ed è proprio qui che nasce il disagio: non possiamo fare a meno di chiederci quanto sia fragile e negoziabile la nostra bussola morale.
Per quanto le donne possano resistere eticamente a quest’impulso, desiderano un uomo che le guardi, che le veda per ciò che sono, e che resti devoto. Si attiva in questo modo un riflesso antico nella psiche femminile: sentirsi speciali, scelte, protette. You espone un dilemma che l’ideologia femminista fatica ad affrontare senza imbarazzo: il bisogno femminile di protezione. Joe soddisfa questo bisogno, ed è per questo che le donne lo trovano così affascinante in un’epoca in cui sono costrette a proteggersi da sole. Il bisogno femminile di protezione non è una colpa né un difetto. È un’eredità biologica difficile da ammettere, perché farlo significa riconoscere che il corpo femminile è più vulnerabile, più esposto e meno armato di quello maschile. Questa verità naturale viene oggi spesso taciuta, perché pare un’implicita giustificazione al patriarcato. Ma negare questo bisogno primordiale ci priva della possibilità di esprimerci pienamente: come possiamo ammettere il bisogno di protezione senza dichiarare che siamo, in effetti, più fragili?
Questo interrogativo viene affrontato anche in un’altra serie di successo, The White Lotus. Nella prima stagione, Nicole, dirigente di successo, madre e moglie di Mark, un uomo meno realizzato, ritrova l’attrazione sessuale per il marito quando lui la salva da un’aggressione. “Sei il mio eroe”, gli dice. E in quel momento, Mark ritrova una forza che credeva perduta, una vitalità che gli era stata sottratta dal suo sentirsi inferiore. Inizia a battersi il petto come un primate. L’immediata comicità di questa mascolinità farsesca cede il passo a una verità silenziosa e scomoda: il bisogno femminile di essere sostenute, ascoltate, di non portare tutto il peso sulle spalle.
Il bisogno di protezione non è del resto solo biologico. Affonda le sue radici anche nel Romanticismo. Heathcliff, in Cime Tempestose di Emily Brontë, è un amante violento e ossessivo che insegue la donna amata persino dopo la morte. Non è forse un caso che l’ultima donna amata da Joe, e l’unica a batterlo in astuzia, si chiami proprio Bronte. L’archetipo del “principe oscuro”, del predatore innamorato, del lupo che ringhia a chiunque si avvicini ma che si lascia accarezzare dalla donna che ama, è seducente. La promessa è che l’uomo possa essere un mostro con il resto del mondo e tenero solo con noi. È proprio qui, però, che Joe ci tradisce: è il partner ideale finché non gli volti le spalle. Se lo fai, quella ferocia la dirige contro di te. Non ci offre un accordo: decide per noi. Ci ama “per il nostro bene”, uccide “per proteggerci”, e alla fine ci lascia solo due opzioni: sottometterci o morire.
C’è un altro livello della storia ancora più inquietante: la familiarità con il mostro. Non il mostro gotico, deforme e repellente, ma quello gentile, ironico e colto. Quello che legge Virginia Woolf, ascolta Nina Simone e ti porta la colazione a letto. Ci racconta chi è, ma in modo da farci comprendere. E c’è qualcosa di quasi erotico nell’idea che il male possa giustificarsi con eleganza, che possa appellarsi “all’amore”. È una debolezza che le donne faticano ad ammettere, ma che si esprime nel boom del true crime. Episodi di violenza misogina diventano storie da consumare con fascinazione, un modo per confrontarsi con la brutalità maschile e provare a capirla. Siamo affascinate dagli uomini che distruggono, se raccontati con una grazia che li giustifichi. È qui che You coglie le donne nella loro fallibilità. Joe narra la sua storia, ci guarda negli occhi e ci dice: “So come parlarti. So come farti sentire al sicuro. Posso essere diverso, solo per te.”
Sotto tutto questo, resta una verità finale, più semplice e più disturbante: Joe è bello. E la bellezza è sempre stata il lasciapassare etico più potente. Questo squilibrio percettivo è antico. Il legame tra “il bello” e “il buono” attraversa l’opera di Platone; due millenni dopo, Schiller scriveva: “La bellezza fisica è il segno di una bellezza interiore, spirituale e morale.” Non è solo questione filosofica: uno studio dimostra che “gli individui fisicamente attraenti sono giudicati più socialmente desiderabili di quelli non attraenti.” Siamo inclini a giustificare ciò che è bello, a pensare che debba essere buono, o almeno redimibile. Se Joe fosse stato brutto, volgare o sgradevole, il suo personaggio non avrebbe funzionato. Ma con la sua bellezza, la violenza entra dalla porta principale. La bellezza sospende il giudizio. Ci fa restare. Ci fa sperare. E You lo sa bene: ne abusa, ci inganna e poi ci chiede di rispondere della nostra complicità.
Il successo di You sta tutto in questo paradosso. In quanto sia facile confondere l’amore con il possesso, la cura con la dominazione, la dedizione con la dipendenza, la bellezza con la bontà. La serie lo fa attraverso un viaggio avvincente, e qui sta un altro punto controverso. You è piena di scene che ci costringono a chiudere gli occhi, momenti raccapriccianti che tuttavia, allo stesso tempo, ci tengono incollati allo schermo fino alla fine. Ed ecco che noi perdiamo il “gioco” della serie, perché iniziamo a empatizzare con Joe. Questo è il motivo per cui il finale diventa improvvisamente “politically correct”: il cattivo viene rinchiuso in carcere e le vittime femminili ritrovano potere e indipendenza. Ma è proprio questo finale moralizzante che ha lasciato tanti spettatori insoddisfatti. La serie ci ha fatto amare Joe, solo per distorcersi all’ultimo e farci vergognare di averlo fatto.
Il finale è un tentativo disperato di dare una morale alla storia di Joe. Viene smascherato, e il “giusto ordine” è ripristinato. Beck, la sua prima vittima, raggiunge il successo come autrice, redenta. Ci viene detto che il suo libro è addirittura migliore senza il finale che Joe aveva scritto per evitare l’arresto. La serie ci chiede di accettare che la relativamente mediocre Beck sia la vera scrittrice di talento, nonostante Joe fosse stato rappresentato fino ad allora come un genio letterario. Gli viene tolto anche il talento, perché rendere un serial killer profondamente intelligente sarebbe “sbagliato”.
Questo finale ha lasciato molti spettatori delusi e confusi. Delusi perché il fascino di You non era quello di dare lezioni morali, ma di permetterci di indulgere nel racconto senza colpa, lasciandoci lì a desiderare che non finisse. La serie ci ha messo davanti a uno specchio: se Joe fosse stato reale, ci saremmo innamorate? Quante di noi non si sarebbero lasciate ingannare? Siamo sbagliate per aver desiderato, in fondo, la sua devozione? Siamo difettose per volere un uomo che ci faccia sentire sicure?
Con Joe in carcere e la sua ultima compagna vestita di fiori, che cammina trionfante per le strade di Manhattan con il sole negli occhi, ci vengono date tutte le “risposte giuste”. Ma è proprio questo che non ci piace, perché ciò che abbiamo amato di più è come la serie ci abbia posto molte domande. Prima di tutto su noi stesse.
Silvia Bignami è pittrice ed ex giornalista a La Repubblica.
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Qui va posta una questione scomoda. La libertà delle donne si gioca in un "playground" costruito - letteralmente - dagli uomini occidentali, appartenenti alla civiltà che forse più di tutte ama le proprie donne. Quando però gli uomini buoni, impauriti dal femminismo, rinunciano al loro ruolo di veri protettori, di patriarchi, di sorveglianti del parco giochi, le donne diventano non solo vulnerabili, ma cooperatrici della propria sventura e vittime dei giocatori uomini cattivi liberi dal controllo. Lo vediamo continuamente nella cronaca. Mesina, Vallanzasca ricevevano migliaia di lettere d'innamorate. La donna uccisa da De Maria sapeva che fosse un assassino, eppure ha commesso adulterio con lui fino all'ovvio epilogo. Le amanti di Michieletti hanno costituito con lui un'alleanza per lo stupro altrui, felici di appartenere all'harem, il recente ritorno in Kenya della donna aggredita e risparmiata da una banda di rapinatori per ritrovarli, non può non pensarsi legata ad un impulso erotico. Lo stesso aborto è spesso legato al darsi senza discernimento a uomini non meritevoli. Io ho chiesto diverse volte a delle donne cosa passasse nella testa di tutte queste altre donne, ma non ne ho mai avuto una risposta articolata. Sembra che nelle donne ci sia un nucleo intimo di irrazionalità che hanno timore esse stesse di illuminare con la parte più ragionevole di sé, o forse perché temono che svelare questo loro lato di cieca, irrazionale sottomissione (ben diversa dalla sottomissione reciproca del matrimonio sacramentale, che è fondata sulla libertà) possa essere usato per asservirle o umiliarle.