Il nostro malessere culturale – che si esprime nella disperazione, nell’alienazione, nella svogliatezza – trova le proprie radici nella perdita dei miti, particolarmente quelli letterari. I social media e la cultura del consumo hanno sostituito queste vere e proprie bussole con delle imitazioni banali e vuote.
La settimana scorsa, un giovane, sconosciuto e anonimo, si è seduto accanto a me in metropolitana. Dopo pochi istanti, tra i rumori e le chiacchiere della folla, ho sentito alcuni strani rumori.
Ammetto di essere un po’ ficcanaso e così ho dato un'occhiata. Sullo schermo dell'iPhone del giovane è apparsa una donna che ricordava un cartone animato, con le labbra, il seno e il sedere gonfi, intenta a cavalcare il suo amante usa e getta. Quel pubblico ipnotizzato di un solo spettatore vedeva scorrere davanti ai propri occhi una sfilata di carne, ed era come se leggesse lo Spectator. Per essere onesti, devo dire che a un certo punto ha abbassato il volume, come richiede il galateo moderno.
Noi londinesi abbiamo un acronimo per questo strano comportamento: NFL - “Normal for London”. Più tardi, quella sera, un altro signore, incrostato di sporcizia e polvere proveniente da un cantiere edile, si è tolto gli stivali da lavoro e si è steso sui sedili della carrozza. Tutto normale. Poi ha aperto TikTok e ogni cinque secondi ripartiva un ciclone di mugugni.
Il signore si è appoggiato il telefono sul petto e ha chiuso gli occhi per un meritato sonnellino, mentre il telefono emetteva una ninna nanna digitale.
Cosa c'è di strano vi chiederete?
La stessa scena si ripete, come in loop, in tutta la città. Come tanti Sisifo contemporanei, i londinesi “scrollano” di continuo. Ma questo scorrere infinito, cosa ci dice della nostra cultura e cosa ci ha fatto perdere?
Queste scene sono emblematiche di un fenomeno più grande: una cultura che si perde in distrazioni vuote e che ha dimenticato i miti e le storie più profonde che un tempo ci guidavano. Chi o cosa può ricreare quella pipa di crack alla dopamina che la nostra psiche ci incolla alle mani? Non c'è da meravigliarsi che tra i giovani la lettura sia in via di estinzione. Nessuno stupore che gli adulti confessino abitualmente di non riuscire a concentrarsi nemmeno il tempo necessario per leggere un libro o anche solo un articolo lungo.
A costo di sembrare reazionario, vi dirò: gli smartphone, così come sono oggi, danneggiano il cervello. Ci rubano la capacità di riflettere, sostituendola con una ricerca compulsiva della novità. Da strumenti di connessione, i telefoni ora sono diventati un dispositivo che frammenta la nostra attenzione e ci isola dal significato delle cose. Tra un decennio o due, gli storici della società accuseranno questi dispositivi diabolici di aver infantilizzato la cultura, e di averci degradati fino a ridurci a esseri ipnotizzati, drogati di dopamina.
Ma prima, una confessione. Un anno fa ho scaricato un'app di nome Freedom creata per disintossicarci dal moderno oppio dei popoli: i nostri telefoni. Come tutti i tossicodipendenti, giuravo che la mia piccola storia d'amore non era niente di che. Sbagliato. Quell'app ha invece evidenziato la gravità della mia dipendenza: ogni giorno, in media, ci trascorrevo sei ore e 46 minuti lasciando scorrere sotto i miei occhi la vacuità degli altri tossicodipendenti come me. Una durata simile, peraltro, è molto comune: l'inglese o l'americano medio trascorre, proprio come me, sei ore al giorno sul proprio telefono a caccia di quella dopamina.
Di questo passo, il futuro della lettura e della cultura del pensiero appare sconfortante. I miti e la letteratura non offrono solo intrattenimento, ma anche una guida per capire come vivere, scegliere le proprie battaglie e resistere nelle lotte esistenziali. Senza di essi, rischiamo di vagare alla deriva in un mare di novità senza senso, legati agli algoritmi ma slegati da ogni scopo.
Non molto tempo fa, giornali e riviste con milioni di lettori usavano termini e concetti elaborati per occuparsi di ciò che oggi molti considerano cultura “elitaria”: romanzi impegnati, teatro, musica classica e film. Quella che oggi consideriamo cultura “alta” un tempo era semplicemente la cultura. Da Aristofane ad Arthur Miller, l’indagine sulla condizione umana era alla portata di molti e non solo di pochi. Oggi la cultura alta è stata quasi completamente sostituita dalla cultura popolare, che fa appello ai nostri desideri più bassi.
L'erosione costante di questa cultura riflessiva e matura – provocata dal dilagare del digitale – ha quasi del tutto distrutto il nostro senso di identità collettiva. Un tempo, la letteratura e le arti gettavano una luce sulla condizione umana, diventando di fatto una guida alla nostra stessa esistenza.
La rottura di queste norme condivise è ciò che Emile Durkheim ha chiamato “anomia”, uno stato di alienazione e caos sociale che nasce quando la società perde le proprie norme condivise e i propri miti guida.
Nell'era dell'algoritmo, i nostri riti di passaggio collettivi sono stati sostituiti da novità insensate – lo stato di chi continua a cercare, ma non trova mai nulla.
Gli algoritmi sono progettati in questo modo. Alcune delle nostre menti più brillanti impiegano le proprie energie intellettuali per rendere le app sempre più coinvolgenti. I nostri smartphone sono pensati per succhiare costantemente la nostra attenzione e per rimodellare il nostro cervello così da farci desiderare la novità. La conseguenza è quel lurido magma di “contenuti” consumati e dimenticati nel momento stesso in cui ci si stacca dallo schermo. Questo fenomeno è particolarmente evidente con l’esplosione dei “reel” di Instagram o dei video virali su X.
E a cosa porta questa cultura che ci sfama di condimenti ma non di cibo? A un popolo arrestato, confuso da slogan sterili, da discorsi para-terapeutici senza senso e da miti infantili. Ci porta a una sostituzione dei riti di passaggio e delle lotte profonde che un tempo definivano il nostro senso dell'essere. Ovunque si guardi, i cartelloni pubblicitari dispensano banalità zuccherose.
All'inizio del XX secolo, il professore di Oxford F.R. Leavis, un critico letterario, si guadagnò la nomea di folle reazionario. Tuttavia, i suoi avvertimenti sul fascino ipnotico degli schermi erano assai lungimiranti, anche ai suoi tempi. Leavis temeva un mondo in cui la superficialità dell’intrattenimento sostituisse la serietà dell'impegno - un mondo che, a giudicare dal mio pendolarismo quotidiano, sembra essere già qui.
Nel suo saggio senza tempo Civiltà di massa e cultura minoritaria, Leavis mette in guardia contro l'imminente lobotomizzazione della nostra cultura. Dal suo punto di vista, il cinema americano si arrendeva ai “più bassi appelli delle emozioni”, tanto più insidiosi in quanto questi film offrivano un “riflesso irresistibilmente vivido della vita reale”. Leavis temeva il potere di “ricettività ipnotica” insito nello schermo. A differenza sua, io non dispero.
Dopotutto, siamo naturalmente portati ad apprezzare i miti e le storie. Quindi, qual è la soluzione? Lettore, sono sicuro che in quest’era di innovazione vorticosa, potremmo quantomeno smettere di truccare gli algoritmi per preferire la base, il banale, il minimo comune denominatore nel popolo. Siamo realisti: almeno per ora, in pochi rinunceranno ai telefoni. Tutti noi, però, possiamo decidere liberamente e in qualsiasi momento come impiegare il nostro tempo. Prendi il romanzo che tieni in borsa. Guarda fuori dalla finestra. Su internet, trova contenuti che stimolano la tua mente. Dichiara guerra all'algoritmo cliccando solo su contenuti arricchenti. Domandati quale sia la vita interiore delle persone che incontri. Così, forse, la nostra cultura può essere salvata.
Non molto tempo fa, un regista ha introdotto la cultura “alta” in una delle serie televisive più acclamate di sempre. The Wire di David Simon deve il suo incredibile successo agli antichi greci. The Wire è una tragedia greca ambientata nella Baltimora contemporanea. Nello spettacolo, gli antagonisti sono incatenati al proprio destino, come Medea, Achille e Antigone. Il capitalismo sfrenato, l’invincibile burocrazia e l’inesorabile traffico di droga sono i moderni e distopici Dei dell'Olimpo, che colpiscono a proprio piacimento quelle marionette condannate. A migliaia di anni dall'antica Grecia, la formula funziona ancora: The Wire è uno spettacolo che affascina.
Il clamoroso successo di The Wire dimostra che il nostro desiderio di trovare un significato non è sparito, anzi, è in continua crescita. Sotto il rumore degli algoritmi, risuonano ancora le antiche strutture del mito e della tragedia.
Per il drammaturgo statunitense Tennessee Williams, l'essenza della vita è il conflitto. Il malessere che proviamo nella modernità deriva da quella che Williams chiama “la vacuità di una vita senza lotta”. Nel suo magistrale saggio La catastrofe del Successo, Tennessee riflette sul formidabile successo della sua opera teatrale Lo Zoo di Vetro. Temendo la falsità che deriva dalla fama, egli mette in guardia dagli eccessi della comodità e della distrazione: “Il cuore dell'uomo, il suo corpo e il suo cervello sono forgiati per il conflitto all’interno di una fornace incandescente”. Per Tennessee, questo conflitto è legato alla “lotta stessa della creazione”. Senza conflitto, “l'uomo è una spada che taglia le margherite”. Il conflitto è necessario per superare, per creare e, infine, per diventare ciò che siamo.
L'ultima frase del saggio di Tennessee ci avverte che il tempo è poco e sta scivolando via, anche mentre scrivo queste righe e mentre voi le leggete. Senza conflitto, senza lotta, senza creazione, siamo solo spade che tagliano margherite. La lotta per reclamare le nostre menti - e i nostri miti - rappresenta un conflitto che vale la pena di combattere.
Quindi, lettore, butta quel telefono dalla finestra, oppure fanne buon uso.
Christopher Gage è un giornalista di satira e uno studente postgraduate di Sociologia alla London School of Economics. Scrive la newsletter settimanale, Oxford Sour.
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