Ero giovane quando incontrai per la prima volta Jordan Peterson. Era il 2015, un momento storico in cui il mondo sembrava frammentato e sull’orlo di un punto di svolta. Le conversazioni con amici e familiari sulla società sembravano o non del tutto oneste, o troppo filtrate dai nuovi dogmi linguistici per essere significative o di valore. In quel vuoto, Peterson, che allora era uno psicologo relativamente sconosciuto dell’Università di Toronto, emerse come un profeta ribelle. Armato di archetipi junghiani, metafore bibliche e un’ossessione inspiegabile per i crostacei, non era certo un accademico ordinario. Parlava con urgenza, convinzione e chiarezza di ordine, sofferenza e significato, in un’epoca che sembrava alla deriva.
Per molti ragazzi, incluso me, fu una linea di salvezza. All’epoca, il concetto stesso di mascolinità era considerato tossico, qualcosa da condannare, persino da cancellare. Peterson non si limitava a rifiutare quella narrazione: le dava fuoco. E per un istante, quell’incendio illuminò una visione della mascolinità a cui aspirare, piuttosto che da tollerare. Ci disse di assumerci le nostre responsabilità e di tenere la schiena diritta. Ci disse che la nostra sofferenza aveva un significato, e che quel significato era più importante della felicità. Non ci offriva frasi fatte. Ci offriva una struttura: una filosofia radicata nell’esistenzialismo, nella morale cristiana e nella psicologia analitica. La vita è sofferenza, diceva. Affronta il drago, porta la croce, e mira verso l’alto. Non sei una vittima. Sei un agente del cambiamento nella tua vita. Questo aveva senso per una generazione abbandonata dal decostruzionismo postmoderno e dall’invalidazione accademica. Aveva senso per me. Lo psicologo canadese ci invitava a smettere di aspettare che il mondo cambiasse, e a iniziare cambiando noi stessi. E sì, parlava anche di aragoste. Molto.
Era uno dei pochi intellettuali pubblici disposti a confrontarsi direttamente con il caos culturale. E lo faceva con analisi affilate, intensità emotiva e un senso di profondità. Le sue opinioni erano ben più pesanti di una semplice provocazione fatta per inseguire i clickbait: proponeva una visione del mondo radicata nel liberalismo classico, nella responsabilità individuale e nell’integrazione psicologica. Univa Carl Jung all’etica cristiana, metteva in guardia contro i pericoli dell’ideologia collettivista, incoraggiando le persone a cercare significato più che convenienza.
Un decennio dopo, ho visto lo stesso uomo scoppiare in lacrime durante un’intervista con Piers Morgan. Ma questa volta, l’esplosione emotiva non era novità assoluta. Peterson ora piange spesso. Ha pianto per i ragazzi di oggi. Ha pianto per Antifa. Ha pianto quando l’attrice Olivia Wilde lo ha criticato. In quell’occasione, le lacrime arrivarono quando Morgan gli chiese cosa significasse per lui essere un modello per la nuova generazione di ragazzi.
“Ero in contatto con migliaia di persone,” disse a Morgan in quella intervista, con la voce rotta. “Questi ragazzi condividevano con me le loro esperienze. Potevo vedere questa demoralizzazione, capisci?”. E proseguì: “Fa parte dell’assenza paterna, in senso ampio, e talvolta anche in senso specifico. Io potevo trovare una strada, una vis per rimediare a tutto ciò.” Poi, visibilmente scosso, aggiunse: “Decidi di intraprendere il viaggio assumendoti la massima responsabilità… È il simbolo di chi solleva volontariamente la propria croce e sale il colle.”
Era il Peterson più autentico, ma anche il più confuso. Le sue metafore entravano in collisione a metà delle frasi. Le sue idee sembravano girare in tondo. Non era chiaro se stesse offrendo una guida o vagando in una mitologia costruita sul proprio dolore.
Peterson non dovrebbe essere deriso. Ha attraversato ciò che può essere definito un universo infernale psicologico: dipendenza da farmaci, gravi problemi di salute in famiglia, pubblica demonizzazione. Credo che sia una persona animata da intenzioni sincere. Ma le buone intenzioni non bastano quando ti sei proposto come guida per milioni di giovani uomini.
Quello a cui stiamo assistendo è, per usare il suo stesso linguaggio, la caduta di un eroe, un epilogo tragico sull’ironia del destino. Non perché forze esterne lo abbiano distrutto, ma perché è crollato sotto il peso delle proprie convinzioni. La sua visione della mascolinità si fondava sul controllo, sulla disciplina e sulla responsabilità. Ma cosa accade quando un uomo che predica lo stoicismo diventa emotivamente instabile? Quando il profeta dell’ordine perde il filo del discorso?
Le crepe si vedono non solo nel suo comportamento, ma anche nel suo messaggio filosofico. Il segno più evidente è forse il suo rifiuto di rispondere alla domanda sulla fede: il rifiuto di rivelare se creda o meno in Dio. Non è una domanda “trabocchetto”. È una questione fondamentale. Se hai passato anni a tenere lezioni su Genesi, Apocalisse e simbolismo biblico, il quesito sulla fede è legittimo. E meriterebbe di ottenere una risposta. Eppure, quando gli è stato chiesto direttamente, Peterson ha risposto in modo evasivo, dicendo soltanto: “Mi comporto come se Dio esistesse. È quello che dico.” Suona intelligente, ma lascia insoddisfatti. È come affermare di vivere come se l’amore esistesse, senza aver mai amato nessuno. Per molti ascoltatori, soprattutto quelli credenti, è sembrato evasivo e superficiale. Questo rivela un problema più profondo: Peterson sembra non essere più certo di ciò in cui crede. E c’è una ragione.
È diventato l’incarnazione di un uomo intrappolato nel proprio mito, un insegnante che si è trasformato nel proprio monito. Un esempio di come il destino metta alla prova il coraggio delle tue convinzioni. Un tempo metteva in guardia contro il pericolo di perdersi, di diventare irresponsabili, instabili. Ma oggi, la sua figura pubblica appare proprio così. Non è più l’àncora, e la barca ha iniziato a navigare senza meta.
Il suo account su X, un tempo luogo di idee e chiarezza filosofica, è diventato il bersaglio delle sue pulsioni più erratiche, e si è riempito di sarcasmo, amarezza e difesa. Più cercavamo saggezza, più trovavamo risentimento.
In breve, Peterson è diventato ciò contro cui ci aveva messo in guardia. Un uomo consumato dal caos, incapace ormai di pensieri ordinati e limpidi. Parte di questa frattura deriva dalla sua filosofia iper-individualista. Una filosofia costruita sull’idea che siamo i soli architetti del nostro destino e che dobbiamo realizzarlo senza lamentarci: una filosofia che lascia poco spazio alla fragilità umana, figuriamoci al fallimento. Peterson ha insegnato ai giovani uomini a portare il peso dell’esistenza con coraggio e determinazione. A tenere la barra diritta. Ma quando la sua vita ha iniziato a deragliare, non è riuscito a seguire il codice che aveva predicato. La sua dipendenza da benzodiazepine non è una nota a piè di pagina, in una biografia come la sua. È stata l’espressione di una contraddizione profonda. Il farmaco pensato per placare l’ansia è diventato la stampella di chi diceva agli altri che l’ansia andava invece sconfitta.
Psicologicamente ha senso, in modo tragico. Tragicità che ha generato un mito a sé per la nostra generazione. La rigidità della sua filosofia non lasciava spazio alla grazia o alla fallibilità. E quando quella rigidità si è incrinata, si è incrinato anche l’uomo. Come molti psicologi affermano, la soppressione cronica delle emozioni non produce forza. Produce psicosi. A suo merito, bisogna dire che Peterson sembrava averlo intuito, almeno per un momento. In Beyond Order, il seguito di 12 Rules for Life, ammise che troppo ordine può essere pericoloso quanto troppo caos. Fu il suo libro più vulnerabile. Mostrava un uomo che iniziava a capire che la sua filosofia, per quanto potente, restava incompleta. Mancava di misericordia e di compassione. Eppure, nonostante quella consapevolezza, non è riuscito ad ascoltare davvero i suoi stessi avvertimenti.
Il mio non è schadenfreude, il piacere suscitato dalle sfortune altrui, come una sorta di soddisfazione cinica. Peterson mi ha invece aiutato a pensare con più chiarezza. Mi ha introdotto a Jung, a Solženicyn, e persino alla vita stessa, in un modo che finalmente mi era comprensibile. Mi ha fatto credere che la mascolinità non fosse una maledizione, ma una vocazione. Mi ha ispirato a leggere libri più impegnativi, a sostenere conversazioni più profonde, a pormi domande migliori sulla società che ci circonda. Questo conta. Ed è anche per questo che la sua caduta fa male.
Ora, Jordan Peterson sembra smarrito in un ruolo che lui stesso ha creato, ma che non riesce più a controllare. E forse è proprio questa l’ultima lezione che il suo mito ha da insegnarci: anche l’uomo che ti dice di sconfiggere il drago può esserne alla fine divorato. Nel tentativo di salvare una generazione di uomini dal caos, potrebbe esserne stato inghiottito lui stesso. E a volte proprio chi ti ha insegnato a trovare un significato può finire per perderlo.
Forse, per Peterson è arrivato il momento di fermarsi. Di smettere di filmarsi. Di smettere di piangere davanti a una telecamera. Di smettere di trascinare le sue domande irrisolte su ogni schermo a disposizione. E invece, di fare quello che una volta consigliava agli altri: mettere in ordine la propria casa. Questo comincia riconoscendo che c’è di più nella vita che tirarsi su gli stivali da soli. Forse allora riusciremo a vedere l’uomo al centro del suo stesso mito e offrirgli la comprensione che merita.
John Mac Ghlionn è un saggista i cui articoli sono apparsi su testate come Newsweek, New York Post, The Hill e altre testate.
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