Una cultura, per essere in grado di “giocare”, ha bisogno di leggerezza di spirito e di una certa dose di fiducia. In Homo Ludens: A Study of the Play-Element in Culture, pubblicato per la prima volta nel 1944, Johan H. Huizinga sostiene che mentre l’Homo Sapiens era forse troppo arrogante e l’Homo Faber troppo “indeterminato” (visto che anche molte specie non-umane sono attive, fanno e costruiscono), il gioco è stato spesso trascurato nella nostra comprensione delle caratteristiche umane. Anche gli animali giocano, naturalmente, ma per Huizinga “le civiltà nascono e si sviluppano nel gioco e come gioco.” Il gioco puro, scrive, è una delle basi principali della civiltà. È, in questo senso, sacro.
Il gioco trascende il bisogno. Non è un riflesso o un fenomeno puramente biologico: ha un significato sociale. Se cerchiamo di dare una spiegazione “restrittiva” del gioco, suggerisce Huizinga, perdiamo la sua “profonda qualità estetica”. Vale a dire, perdiamo ciò che va oltre l’analisi e l’interpretazione logica. Huizinga osserva che solo l’inglese ha una parola — fun — che cattura ciò con cui il “gioco” ha a che fare (il francese, nota, non ha un termine corrispondente, mentre il tedesco ha Spass e Witz, che ci si avvicinano). Il gioco, scrive, non può essere negato: “Puoi negare, se vuoi, quasi tutte le astrazioni: giustizia, bellezza, verità, bontà, mente, Dio. Puoi negare la serietà, ma non il gioco.”
Cosa ha da dire la cultura contemporanea riguardo al gioco? In un certo senso, il gioco è ovunque: l’industria dei videogiochi ha guadagnato circa 455 miliardi di dollari l’anno scorso, più delle industrie cinematografica e musicale messe insieme. Gamergate, quando ormai poco più di un decennio fa ha iniziato la resistenza contro l’assalto progressista al mondo della cultura, lo ha fatto proprio in nome del “fun”, che è gioco, ma anche divertimento: lo slogan “go woke, go broke!” svela che a nessuno piace quando gli vengono impartite lezioni etiche. Non piace quando giochi, film, musica, letteratura e arte hanno come primo obiettivo quello di trasmettere un messaggio morale—peraltro, negli ultimi dieci anni, un messaggio che di solito non ha alcuna relazione con la realtà e non è altro che propaganda. Le persone non vogliono sprecare quel poco tempo libero che riescono a ritagliarsi per essere istruite su cosa pensare da chi crede di essere più intelligente o di avere una maggiore statura etica del proprio pubblico.
Allo stesso tempo, abbiamo assistito a una terribile reificazione del gioco—vale a dire, alla tendenza a irrigidire qualcosa che dovrebbe rimanere al livello di una gioia fugace. I bambini, per una varietà di ragioni, sono predisposti a giocare—come afferma Huizinga, “Il bambino e l’animale giocano perché si divertono a giocare, e proprio in questo risiede la loro libertà”— mentre gli adulti nel mondo occidentale hanno cercato di riacchiappare quella libertà e di trasformarla in una identità statica. Quando un bambino finge di essere un animale, o il sesso opposto, o un dinosauro, o un astronauta, sa benissimo che il tempo stesso è diventato il piano di un piccolo gioco. “Ogni bambino sa perfettamente che sta solo ‘facendo finta’, o che era ‘solo per divertimento’”, come dice Huizinga. Al contrario la nostra cultura cerca di bloccare questi momenti per ragioni assolutamente poco edificanti: per trarne profitto, o per rubare la gloria riflessa del gioco con motivazioni legate al mondo degli adulti.
Ma è soprattutto nel mondo delle relazioni tra uomini e donne, dove tutti i tipi di giochi culturali (dal ballo al flirt, ai gesti non verbali) prendono vita, che il gioco ha forse subito il colpo più importante. I giovani parlano di appuntamenti tramite app come se fossero colloqui di lavoro, dove entrambe le parti sono in audizione per uno stage non retribuito. Il MeToo ha creato un mondo in cui non vale la pena di flirtare al lavoro o di avvicinarsi a una donna là fuori nel mondo: basta un passo falso e sei rovinato, e il tuo nome è sparso su internet. Le app di incontri potrebbero agire come una sorta di filtro e creare interesse e consenso, all’inizio, ma rischiano di togliere tutta la sorpresa dalla vita: e se tu non sapessi come è fatta la persona che potresti davvero amare nel tuo futuro? Potrebbe essere che si tratti di una persona che non condivide le tue convinzioni politiche, che non è propriamente “il tuo tipo” ma che introduce un elemento di gioioso caos in un mondo fatto solo di calcoli e burocrazia. Ma non lo sapresti se quello che ti guida è una lista di requisiti o di ingredienti: le relazioni umane non sono ricette.
Quindi, come possiamo tornare a una cultura che sia abbastanza leggera da rischiare di flirtare? Che trova divertimento e piacere nel prendersi il tempo per vedere dove ci porta una conversazione o un flirt? Huizinga suggerisce che, forse sorprendentemente, ci sia un’affinità tra il gioco e l’ordine, e che questa affinità tenda “ad essere bella”, orientata all’armonia. Ogni gioco ha delle regole, anche se queste cambiano man mano che il gioco procede. Bisogna dimostrare una certa apertura e disponibilità a scoprire come potrebbe andare a finire, proprio come se anche questo fosse un “gioco”. I giochi sono anche intimamente legati al segreto—l’esatto opposto dell’imposizione incessante della trasparenza, centrale nell’era della sorveglianza e dell’autosorveglianza.
Spesso piangiamo la perdita dei rituali in Occidente. Mentre alcune pietre religiose riescono a fatica a sopravvivere, c’è una generale assenza di marcatori culturali. Le piattaforme sono troppo frammentate, c’è poco di ciò che può essere definito cultura condivisa. I giochi vengono giocati, certo, ma spesso da soli, e senza spazio per la spontaneità. La conversazione libera online è sempre più sorvegliata e bloccata, sia dagli Stati che da autoproclamati controllori. Ma non tutto è perduto. Il mondo esterno esiste ancora, per coloro che si sentiranno alla fine annoiati e alienati dalle promesse del virtuale. Gli altri esistono. Spontaneità e piacere sono in attesa di essere riscoperti: dopotutto, i colloqui di lavoro si svolgono davvero di rado nei parchi.
In Leggi, di Platone, il filosofo greco risponde a chi gli chiede quale sia il modo giusto di vivere affermando che “la vita deve essere vissuta come gioco, giocando a certi giochi, facendo sacrifici, cantando e ballando, e così l’uomo potrà propiziarsi gli Dei, difendersi dai suoi nemici, e vincere nella competizione.” La nostra cultura è infinitamente più frammentata del mondo collettivo dei Greci—anche se anche quel periodo era ben lontano dall’essere privo di antagonismi e conflitti—ma faremmo bene a ricordarci che proprio il tema del gioco è intimamente connesso a quello della pace. Un eccesso di serietà spesso ci porta proprio verso l’epilogo che più temiamo—che si tratti di guerra o di maggiore ansia. Chi non sa giocare vive in un mondo malinconico: il gioco ci ricorda che la vita e anche l’amore possono essere compresi quando abbiamo un cuore leggero, e che cose inaspettatamente buone accadono spesso proprio nel momento in cui decidiamo di allentare la presa.
Nina Power è scrittrice e redattrice, filosofa e autrice del libro “What Do Men Want?” (Penguin: 2022).
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