Svegliati all’una di notte in un freezer. Sei a disagio? Bene. Trascina uno pneumatico andando al lavoro mentre ascolti cinque podcast di auto-miglioramento contemporaneamente. Mettiti delle formiche nelle mutande per costringerti ad andare avanti. Lavora al computer con la tastiera cinese. Non conosci il cinese? Lo imparerai. Vetri rotti per pranzo. Vieni investito da tre macchine mentre torni a casa ascoltando due audiolibri a velocità doppia. Hai le gambe rotte? Bene. Nuovo record. Scarafaggi che ti baciano dappertutto, loro capiscono il grind. Be Jocko, di Wormwood e Countereculture.
La parte più inquietante di questo video non è il contenuto, ma la familiarità e la riconoscibilità della narrativa. Chi ha scrollato abbastanza a lungo sui social media avrà visto un uomo duro che racconta delle sofferenze rituali che si autoinfligge quotidianamente per raggiungere il successo. Questo, in sintesi, è il “grind”: lavorare con fatica contro ogni ostacolo, da soli.
David Goggins, un Navy SEAL in pensione e uno dei più noti sostenitori del “grind”, spiega: “Ci vuole un’autodisciplina di ferro per includere la sofferenza nella propria routine in modo programmato, giorno dopo giorno.” Non è il solo: Goggins, Jocko e tanti ex militari rappresentano l’avanguardia di quella mentalità del “grind” che ha trovato un pubblico di riferimento. Sebbene questa dottrina non si rivolga a un solo genere, essa è più popolare tra gli uomini, in particolare quelli sulla cinquantina.
Ma non sempre il loro messaggio trova ascolto. A molti, soprattutto tra i più giovani, la vita moderna sembra già una sofferenza: inserire nella propria giornata un’altra fatica non solo appare inutile, ma sembra piuttosto un’ulteriore forma di sottomissione a un sistema che non ci permette più di vivere una vita di valore.
Gli uomini del grind “ce l’hanno fatta”. Provengono da un ambiente difficile. Hanno attraversato l’inferno. Eppure, nonostante tutto, sono riusciti a risalire, grazie al duro lavoro, alla disciplina, al rifiuto di lasciarsi sopraffare dalle emozioni. Non importa se hanno avuto una brutta giornata, si impegnano comunque. Sopportano in silenzio ogni ingiustizia, da soli. Hanno dimostrato, con la pura forza di volontà, che gli ostacoli erano temporanei, la resistenza era inutile, gli scettici sbagliavano. Goggins sostiene che sia proprio grazie al “grind” che è riuscito a passare dal bullismo scolastico e dall’essere dipinto come un ragazzo mentalmente disabile a diventare “l’uomo più duro del mondo”.
Questa passione per lo sforzo e la fatica non è così condivisa dalle generazioni dei millennial e degli zoomer. Il motivo è semplice: il grind non funziona per loro. Lo hanno provato, ma non hanno raccolto i frutti promessi dai Goggins e dai Jocko del mondo. La maggior parte di coloro che appartengono a queste generazioni oggi si alza presto, svolge lavori poco gratificanti fino a tarda sera per un’azienda anonima e poi rientra nel piccolo appartamento vuoto per cui pagano il mutuo che forse riusciranno a estinguere tra qualche decennio. È un’attività non solo poco gratificante, ma addirittura demoralizzante perché non porta a frutti tangibili. Se segui le regole, non è detto che “ce la farai”. Dire che la colpa è soltanto tua non permette di valutare le cause più profonde.
Si è scritto molto di come la nostra generazione paghi per un eccesso di benessere. I sostenitori della “linea dura” credono che troppa sicurezza crei passività senza lo spirito d’avventura. Si tratta di un’argomentazione valida, ma non per le ragioni che suggeriscono. La generazione dei baby boomer ha vissuto una vita relativamente agiata, con impieghi redditizi, la possibilità di trovare casa a prezzi accessibili, e mercati finanziari che viaggiavano a gonfie vele. La loro utopia è oggi quasi inimmaginabile. Non serve essere vittimisti per rendersi conto che ciò che manca oggi non è la sofferenza, ma il significato che si può trovare attraverso essa.
La filosofia del grind deriva principalmente dalla generazione venuta dopo i baby boomer e prima della nostra: cioè dalla Generazione X. Coloro hanno cavalcato l’onda del benessere di cui avevano goduto i baby boomer prima della dissoluzione della società. Questa inversione di tendenza ha trovato espressione nel grind. Essi pretendono di insegnare alle giovani generazioni come “farcela” nella vita, ma possono farlo solo perché sono stati risparmiati dalle conseguenze della nuova era di precarietà.
Determinazione, resilienza e disciplina sono virtù necessarie, è vero, ma non bastano più da sole. I problemi che stiamo cercando di risolvere—l’atomizzazione dell’individuo, la perdita culturale e spirituale, la resa di fronte alla depressione economica—non possono essere elusi. La loro soluzione non dipende dallo sforzo personale, ma richiede creatività e collaborazione per generare un nuovo sistema alternativo, antitetico alla ricerca individualista proposta dalla cultura del grind.
Anche se ne considerassimo solo i meriti, tralasciando il contesto generazionale che ha portato alla sua ascesa, questa filosofia risulterebbe comunque insufficiente. Affonda le proprie radici in una combinazione di stoicismo e di etica del lavoro basata sulla disciplina. Lo stoicismo è una filosofia basata sul controllo, che però, come ho sostenuto in questo articolo, porta a sopprimere in modo poco sano le nostre emozioni e porta alla passività. La filosofia dell’etica del lavoro è quella del sacrificio che porta a raggiungere il successo contro ogni previsione. Queste due mentalità combinate possono creare una pericolosa somma di passività nella sofferenza con l’illusione del controllo. Il vero successo non dipende dal “fare di più con meno”, ma dal saper trarre il meglio dalle carte che ci sono state assegnate. Se ti senti costantemente sofferente, è un chiaro segnale che l’ambiente sottostante non sta funzionando bene. Questa legge si applica egualmente a tutti gli organismi.
Come stile di vita, il grind è fondamentalmente solipsistico. La realtà diventa un mondo esterno da sopportare stoicamente. Conta solo l’autodisciplina con cui la si affronta. La vecchia dicotomia “vivere per lavorare o lavorare per vivere” sbiadisce, poiché la lotta stessa è la vita. In questo senso, il grind diventa ciò che Kierkegaard descriverebbe come la disperazione della sfida. L’io sfidante, “vuole contrastare o sfidare ogni esistenza e restare se stesso di fronte ad essa, mettendo il sé in secondo piano con ferrea rassegnazione, quasi sfidando la propria agonia.” Per Kierkegaard, la disperazione costituisce l’incapacità di relazionarsi adeguatamente con se stessi.
Affrontare delle sfide per uno scopo superiore è diverso dall’infliggersi apposta delle sofferenze fini a se stesse per stressarsi e toccare i limiti della propria tolleranza. Perché il “grind” non sia una vita di dolore intenzionale, ma la ricerca della bellezza nel dolore, bisogna adottare una prospettiva in cui la sofferenza non è lo scopo ultimo, ma la conseguenza necessaria di un cambiamento di valore. Nietzsche riassume questo concetto nella frase: “Chi ha un perché per vivere può sopportare quasi qualsiasi come”. La cultura del grind rovescia questo principio, sacrificando il più ricco “perché” sull’altare di un “come” che ha uno scopo dubbio.
Il grind è anche una filosofia autoreferenziale: “Promuovo questo stile di vita perché promuovendolo sono diventato ‘interessante.” Osservando quei personaggi che sono riusciti ad abbattere delle barriere e dare vita a qualcosa più grande di loro, possiamo notare come sia in gioco una dinamica diversa. Curiosamente, il grind è prevalente tra gli uomini di formazione militare, ma non così tanto tra i pionieri e i leader. Per esempio: per trasformare i loro sogni in realtà, i campioni degli sport da combattimento, presumibilmente seguaci del grind, seguono una vita di “funzionalità disfunzionale”. Non contano solo sullo sforzo, ma anche sul potere dell’istinto, che è antitetico al controllo.
In un’intervista, il campione dell’UFC Conor McGregor ha raccontato di come non si alzasse mai presto al mattino, ma di come si allenasse nello sport di combattimento fino a tarda notte. Ha detto che nelle prime ore del giorno era “introvabile”. Se si fosse imposto di essere “funzionale” e di svegliarsi alle 5 del mattino, come sostengono i filosofi del grind, forse non sarebbe diventato un campione, perché per raggiungere l’eccellenza serve una certa capacità di ascolto alle nostre esigenze personali. Questo non significa essere indulgenti, ma saper riconoscere quella disfunzione che, a volte, può aiutarci. Allo stesso modo, Jon Jones, considerato il più grande lottatore di MMA di tutti i tempi, afferma di aver avuto spesso comportamenti “sbagliati” prima di ogni incontro, per presentarsi rilassato e anche in parte impreparato al match. “Avevo questa pazza abitudine di fare festa per una settimana prima di ogni lotta. Pensavo che se mi avessero battuto, mi sarei guardato allo specchio e avrei pensato: ‘Ho perso perché mi sono ubriacato prima dell’incontro.” Ha poi aggiunto: “Quando non mi sono comportato così, ho fatto le mie peggiori performance”. Se non si allenava al meglio delle sue possibilità, insomma, non rischiava di essere sconfitto al massimo delle sue capacità. Non è necessariamente un sistema di pensiero “sano”, e certamente non è coerente con la mentalità del grind, ma si tratta di un approccio che gli permetteva di entrare in uno stato di flusso che lo rendeva imbattibile. Questi uomini si allenano, combattono, falliscono, e lavorano sodo per risalire e tornare in vetta, più forti di prima. Ma lo fanno con una visione e praticano la disciplina abbandonandosi al proprio istinto per crearla e, cosa ancora più importante, per lasciare che si crei da sola.
Questo è particolarmente vero per chi lavora nella creatività e nell’invenzione. L’efficienza e l’ottimizzazione hanno un prezzo: il sacrificio del genio e della qualità. A volte, sprofondare nell’abisso e lasciarsi inghiottire permette di trovare idee nuove e più valide per capire dove si può migliorare. Il grind non lascia spazio per fermarsi, perché ci rende simili a un drone che non smette mai di caricare. A volte per riemergere è necessario toccare il fondo. Non si tratta di mollare, perché mollare significherebbe non andare più avanti. Si tratta di abbracciare il ciclo, riflettere sui suoi insegnamenti e impegnarsi nuovamente con se stessi.
Leonardo da Vinci impiegò 14 anni per finire la Gioconda, poiché nel frattempo era impegnato in altri progetti che non portò mai a termine, a ragionare sull’anatomia umana e sugli aeroplani, per il puro e semplice gusto di imparare. Egli fu finanziato da mecenati che avevano fiducia in lui, permettendogli di condurre questo stile di vita senza preoccuparsi degli aspetti finanziari. Lui, infatti, disse: “Gli uomini di genio realizzano di più quando lavorano di meno, perché stanno pensando a invenzioni e formando nelle loro menti l’idea perfetta che successivamente esprimono.” Cosa ne penseremmo oggi, con le dinamiche del mercato che lo costringerebbero a “grindare”?
Da scrittrice e da pittrice noto che, pur avendo bisogno di una stabilità di base per poter esprimermi, ho scritto i miei articoli migliori a tarda notte, circondata dal silenzio e dal buio che mi permettevano di concentrarmi. A volte ho bisogno di fermarmi per ore, di distrarmi, di tornare all’opera con uno sguardo nuovo. “Le persone creative hanno bisogno di tempo per sedersi e non fare nulla”, ha detto lo scrittore statunitense Austin Kleon. Nella nostra società basata sull’efficienza, queste parole possono sembrare una forma di pigrizia, perché siamo abituati a una mentalità di produzione costante. Ma i miei dipinti migliori non li ho realizzati sforzandomi di raggiungere la perfezione o mentre faticavo per rispettare una scadenza. I miei dipinti migliori sono nati quando mi sentivo tra la disciplina e l’abbandono. Quella sensazione di meditazione che deriva dall’essere talmente immersi in un’attività da dimenticare la realtà esterna. Non lo si sente come un grind, ma come uno stato naturale.
Le routine rigide, in questo senso, possono inibire il potenziale creativo. Anche se, certamente, una struttura è necessaria, essa serve come punto di riferimento e, a volte, abbiamo bisogno di fidarci di noi stessi per piegarla. Così la volontà e l’impegno si sommano alla spontaneità e allo slancio. Alcune persone funzionano meglio sotto pressione, e io sono certamente fra queste. Ma c’è un tipo di pressione che permette alla mente di agire istintivamente, e di raggiungere così il massimo del suo potenziale. È una sfida entusiasmante. La mentalità grind consiste invece nel forzare costantemente una pressione spietata di cui non abbiamo bisogno: invece di sentirci all’altezza dell’occasione, finiamo per sentirci esausti, e così l’occasione non si presenta.
Il grind si basa sulla rigidità, sull’idea che dobbiamo andare avanti qualunque cosa accada. Che dobbiamo raggiungere il risultato migliore, sempre, in modo stabile e codificato. Ma questo schema può portare alla nevrosi. Se un elemento va fuori posto, l’imprevedibilità sotto questa routine massimizzata può fare crollare il sistema sotto il suo stesso peso. Dare il massimo significa invece imparare a cavalcare ogni onda man mano che si presenta. Essere vivi significa essere flessibili. Possiamo adattarci in base a ciò che ci troviamo ad affrontare. Solo gli oggetti inanimati sono inflessibili, ed essi non ottengono grandi risultati.
Oggi la vita è già abbastanza impegnativa così com’è. Non perché siamo oberati di comfort, ma perché la sfida viene presentata sotto la veste di comodità. La disconnessione portata dai social media, l’inflazione dal stampare più moneta e il caos da una politica che non ascolta ai nostri bisogni, ci portano a sentirci sempre più frustrati. Non siamo in guerra, in trincea come i nostri nonni, ma stiamo combattendo battaglie più sottili e insidiose, contro un nemico che ci sprona a bruciare le ultime scintille di energia e ispirazione che ci sono rimaste. Contro di esso dobbiamo ribellarci. La virtù del coraggio è oggi quella più rara e quella di cui abbiamo più bisogno.
È un grind resistere alle tentazioni online. È un grind svegliarsi ogni mattina e andare al lavoro senza la certezza di un futuro migliore davanti a sé. È un grind andare avanti senza vedere i risultati che i tuoi genitori hanno ottenuto senza un briciolo del tuo sforzo. È grind sopportare la solitudine del lockdown di una pandemia, sopravvivere a un’economia che ti rema contro, assistere all’aumento dei crimini in patria e al rischio di un’altra guerra all’orizzonte. È grind sentirsi incerti in ogni momento.
Non abbiamo bisogno di altre fatiche. Abbiamo bisogno di scoprire la gioia con uno scopo e la leggerezza attraverso l’istinto. Di sentire l’adrenalina dell’eccitazione scorrere nelle nostre vene. Abbiamo bisogno di sentirci vivi. È così che possiamo sopportare felicemente la sofferenza che può derivarne.
Alessandra Bocchi è la fondatrice di Alata Magazine e della Rivista Alata.
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Tema molto attuale e rilevante. Personalmente, credo si possano includere in questa categoria di "grinder" anche i numerosi life coach, di cui internet è ormai saturo. Hanno un approccio meno estremo, forse, ma il messaggio e i danni che ne derivano sono gli stessi: un'eccessiva iper-responsabilizzazione individuale.
Interessante ed un’utile lezione di vita