La filosofa Edith Stein disse una volta: “Il mondo non ha bisogno di ciò che le donne hanno, ha bisogno di ciò che le donne sono.”
Per la maggior parte delle donne, la maternità rappresenta un desiderio profondo e biologico. Sebbene noi donne siamo esseri dotati di anima, ambizioni ed ego, siamo anche, fondamentalmente, mammiferi. Conciliare in modo armonioso la complessità del nostro essere umano con l’istinto di creare una famiglia è la nostra missione.
Questo non intende delegittimare le donne che non hanno figli per motivi personali o di circostanza. Si tratta di voler aiutare le donne che sono madri a navigare questo ruolo con forza.
Acquisiamo potere quando riconosciamo e rispettiamo i nostri limiti naturali. Questi limiti non sono restrizioni, ma una struttura che ci consente di espanderci con saggezza. Quando rispettiamo i nostri limiti, la nostra crescita diventa una base solida per la piena espressione di noi stesse. Ignorare quei limiti, al contrario, ostacola il nostro potenziale.
Come madri, il nostro “paesaggio” interiore è composto dall’amore per i nostri figli, dall’urgenza di rispondere ai loro bisogni e, allo stesso tempo, dal desiderio più ampio di esprimere noi stesse dando il nostro contributo nel mondo. La vita di molte madri non riflette questa realtà interiore, perché la nostra società post-industriale è spesso disumanizzante, e perché allo stesso tempo ci viene fatto credere che la colpa sia nostra.
Soddisfiamo questi bisogni nutrendo i nostri corpi con cibo biologico, trascorrendo tempo nella natura, condividendo calore, connessione e risate con altre donne e, allo stesso tempo, creando qualcosa che sentiamo avere valore per il mondo intorno a noi. Ma la struttura della famiglia moderna spesso fa sì che molti di questi pilastri vengano trascurati. Le donne dovrebbero stare attente agli obblighi imposti da altri che le privano dei loro bisogni. C’è saggezza in ciò che i nostri corpi ci stanno comunicando. Questo richiede una reale comprensione di chi siamo e di cosa siamo fatte.
Per fiorire come madri, dovremmo proteggere i nostri corpi e rivendicare la nostra corporeità. Il modo in cui la modernità spesso si aspetta che viviamo – come se non sanguinassimo, non dessimo alla luce la vita, non producessimo latte, non fossimo responsabili della vita stessa – è proprio il motivo per cui dobbiamo difendere questa rivendicazione a ogni costo. Per fiorire, dobbiamo uscire da stili di vita che ci obbligano a sopravvivere in uno stato di sottostante negazione fisiologica. Siamo i veicoli attraverso cui la vita intesse la sua storia, ma le strutture moderne vogliono farci dimenticare questa realtà. Invece, dobbiamo difenderla con ferocia, perché la femminilità non è solo dolcezza e bellezza; è anche, e allo stesso tempo, forza e ardore.
Dobbiamo fare i conti col fatto che molte donne sentono il bisogno di stare a casa con i propri figli, almeno nei loro primi anni di vita. E dobbiamo iniziare a fare i conti con questo bisogno soprattutto noi donne. Non la politica, non il governo. E non gli uomini. Dobbiamo smettere di permettere che nei nostri anni fertili siamo usate principalmente come unità produttive per un’economia che misura il successo in base alla produzione. Questo non significa che le donne non debbano lavorare. Significa piuttosto abbracciare la sintesi che la vita può offrirci, se scegliamo di lavorare in un modo che sia compatibile con il nostro bisogno di essere madri. E se scegliamo un lavoro che valorizzi prima di tutto la qualità.
Possiamo lavorare da casa, gestendo un’attività online che ci appassioni e che garantisca la nostra indipendenza economica. Possiamo svolgere lavori da freelance. Possiamo scambiare beni con i vicini, o aiutare un’amica occupandoci dei suoi figli quando ha bisogno di partecipare a una riunione. Possiamo fare comunità e in essa rafforzarci a vicenda come donne.
L’economia “del cottage”, anche conosciuta come economia di comunità, formata cioè da una comunità in cui il lavoro è svolto da unità familiari o da singoli individui che usano e mettono in comune le risorse disponibili, può offrirci un nuovo paradigma. Questo tipo di economia produce beni attraverso il lavoro manuale, creando un senso di realizzazione e autonomia. La vita si localizza. Ci permette di utilizzare le ricchezze della natura in comunità dove possiamo sentirci sia connesse che rafforzate.
Ricordare le verità che tutte conosciamo come madri ci permette di non essere “addomesticate”, non nel senso che non possediamo abilità domestiche o che non viviamo nello spazio domestico, ma nel senso che scegliamo di non aderire alla visione dominante della maternità proposta oggi. Questo non è un invito a tornare indietro nel tempo o a sminuire i nostri desideri più elevati, ma a prendere le lezioni del passato e usarle nel nostro contesto: bilanciando il nostro istinto materno con le nostre aspirazioni più alte.
Spesso ci si aspetta che sacrifichiamo questi bisogni per conformarci ai doveri del lavoro aziendale, e così facendo le donne rischiano di perdere il contatto con sé stesse. È per questo che condizioni come la depressione post-partum vengono normalizzate. Neghiamo la nostra natura, e quando non riusciamo a reggere la pressione secondo i parametri imposti dai nostri “padroni”, veniamo silenziate con una diagnosi di salute mentale. È uno strumento moderno di svalutazione che trasforma comportamenti disfunzionali in norma.
C’è dignità sia nel crescere i figli che nel mantenere una casa, pur preservando gli aspetti più selvaggi della nostra natura femminile. Restare selvaggia significa rimanere in uno stato non addomesticato. Paradossalmente, il culmine dell’addomesticamento femminile è rappresentato dal modello di vita standard oggi. Le donne lavorano spesso in piccoli uffici, alienate in un mondo virtuale, con pochissimo contatto con la natura, costrette ad affidarsi a esperti per la cura della propria salute, e incapaci di sentirsi connesse a uno scopo che dia loro valore. Una vita selvaggia è una vita dedicata al rifiuto di essere domate dalle forze post-industriali che tentano di addomesticarci. Significa anche respingere l’immagine tradizionale e puramente di “performance” della maternità che viene oggi proposta come risposta reazionaria.
L’entusiasmo che nasce dalla creazione è vitale per il nostro spirito. Il processo creativo è il modo in cui trasformiamo l’indefinito in materia. Questo significa che prenderci cura del nostro contesto domestico può darci un senso di realizzazione se combinato con il nostro desiderio di dare il nostro contributo al mondo inseguendo i nostri sogni. Usare il nostro corpo per creare e modellare gli spazi intorno a noi e trasformarli per generare meraviglia, bellezza e conforto è ciò che Stein intendeva con “ciò che le donne sono”. Le donne sono creatrici dell’infinito che prende forma.
Come madri, abbiamo il potere di creare case che siano microcosmi viventi di tenerezza e audacia. Quando il nostro cuore si spezza di fronte agli eventi che accadono nel mondo, possiamo pensare che le nostre case siano solo un prodotto di tutto ciò, ma dobbiamo capovolgere questo paradigma. Le case sono rifugi che plasmano la società. La famiglia è un microcosmo attraverso cui cresce la nostra realtà. Dobbiamo sovvertire l’immagine moderna di una società in cui la famiglia è solo il prodotto di una sovrastruttura economica. La famiglia deve tornare a essere il pilastro della società, nella sua complessità e, a volte, anche nelle difficoltà che attraversa. La famiglia può assumere molte forme. Ma rimane il fulcro essenziale.
Non dobbiamo essere semplici specchi del mondo. Possiamo definirlo. Abbiamo scelte e opzioni, una storia da cui imparare, la natura a guidarci, e una realtà che possiamo imparare a dominare. Rifiutando la cultura del lavoro di ufficio, possiamo muoverci verso una vita fatta di abilità e curiosità, indipendenza e comunità, dolcezza e coraggio, tutte nella stessa misura.
Emily Hancock è madre di tre figli e autrice di The Work of Women.
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